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BRUTO SECONDO


AL POPOLO ITALIANO

FUTURO.


Da voi, o generosi e liberi Italiani, spero che mi verrá perdonato l'oltraggio che io stava innocentemente facendo ai vostri avi, o bisavi, nell'attentarmi di presentar loro due Bruti; tragedie, nelle quali, in vece di donne, interlocutore e attore, fra molti altissimi personaggi, era il popolo.
Ben sento anch'io, quanto era grave l'offesa, di attribuire e lingua, e mano, e intelletto, a chi (per essersi interamente scordato d'aver avuto questi tre doni dalla natura) credeva impossibile quasi, che altri fosse per riacquistarli giammai.

Ma, se le mie parole esser den seme,
che frutti onore a chi da morte io desto;

io mi lusingo che da voi mi sará forse retribuita giustizia, e non scevra di qualche laude. Cosí pure ho certezza, che se dai vostri bisavi mi veniva di ciò dato biasimo, non potea egli però essere scevro dei tutto di stima: perché tutti non poteano mai odiare o sprezzare colui, che nessuno individuo odiava; e che manifestamente sforzavasi (per quanto era in lui) di giovare a tutti, od ai piú.

Parigi, 17 Gennaio 1789.

Vittorio Alfieri.

PERSONAGGI

Cesare;
Antonio;
Cicerone;
Bruto;
Cassio;
Cimbro;
Popolo;
Senatori;
Congiurati;
Littori.

Scena, il Tempio della Concordia, poi la Curia di Pompeo, in Roma.


ATTO PRIMO


SCENA PRIMA

Cesare, Antonio, Cicerone, Bruto, Cassio, Cimbro, Senatori. Tutti seduti.


CESARE - Padri illustri, a consesso oggi vi appella
il dittator di Roma. È ver, che rade
volte adunovvi Cesare: ma soli
n'eran cagione i miei nemici e vostri,
che depor mai non mi lasciavan l'armi,
se prima io ratto infaticabilmente
a debellargli appien dal Nilo al Beti
non trascorrea. Ma al fin, concesso viemmi,
ciò che bramai sovra ogni cosa io sempre,
giovarmi in Roma del romano senno;
e, ridonata pria Roma a se stessa,
consultarne con voi. - Dal civil sangue
respira or ella; e tempo è omai, che al Tebro
ogni uom riabbia ogni suo dritto, e quindi
taccia il livor della calunnia atroce.
Non è, non è (qual grido stolto il suona)
Roma in nulla scemata: al sol suo nome,
infra il Tago, e l'Eufrate; infra l'adusta
Siene, e la divisa ultima ignota
boreale Albione; al sol suo nome,
trema ogni gente: e vie piú trema il Parto,
da ch'ei di Crasso è vincitore; il Parto,
che sta di sua vittoria inopinata
stupidamente attonito; e ne aspetta
il gastigo da voi. Null'altro manca
alla gloria di Roma; ai Parti e al mondo
mostrar, che lá cadean morti, e non vinti,
quei romani soldati, a cui fea d'uopo
romano duce, che non d'auro avesse,
ma di vittoria, sete. A tor tal onta,
a darvi in Roma il re dei Parti avvinto,
io mi appresto; o a perir nell'alta impresa.
A trattar di tal guerra, ho scelto io questo
tempio di fausto nome: augurio lieto
per noi sen tragga: ah! sí; concordia piena
infra noi tutti, omai fia sola il certo
pegno del vincer nostro. Ad essa io dunque
e vi esorto, e vi prego. - Ivi ci appella
l'onor di Roma, ove l'oltraggio immenso
ebber l'aquile invitte: a ogni altro affetto
silenzio impon l'onor per ora. In folla
arde il popol nel foro; udir sue grida
di qui possiam; che a noi vendetta ei pure
chiede (e la vuol) dei temerarj Parti.
Risolver dunque oggi dobbiam dell'alta
vendetta noi, pria d'ogni cosa. Io chieggo
dal fior di Roma (e, con romana gioja,
chiesto a un tempo e ottenuto, io giá l'ascolto)
quell'unanime assenso, al cui rimbombo
sperso fia tosto ogni nemico, o spento.

CIMBRO - Di maraviglia tanta il cor m'inonda
l'udir parlar di unanime consenso,
ch'io qui primo rispondo; ancor che a tanti
minor, tacer me faccia uso di legge.
Oggi a noi dunque, a noi, giá da tanti anni
muti a forza, il parlare oggi si rende?
Io primier dunque, favellar mi attento:
io, che il gran Cato infra mie braccia vidi
in Utica spirare. Ah! fosser pari
mie' sensi a' suoi! Ma in brevitá fien pari,
se in altezza nol sono. - Altri nemici,
altri obbrobrj, altre offese, e assai piú gravi,
Roma punire e vendicar de' pria
che pur pensare ai Parti. Istoria lunga,
dai Gracchi in poi, fian le romane stragi.
Il foro, i templi suoi, le non men sacre
case, inondar vedea di sangue Roma:
n'è tutta Italia, e n'è il suo mar cosperso:
qual parte omai v'ha del romano impero,
che non sia pingue di romano sangue?
Sparso è forse dai Parti? - In rei soldati
conversi tutti i cittadin giá buoni;
in crudi brandi, i necessarj aratri;
in mannaje, le leggi; in re feroci
i capitani: altro a patir ne resta?
Altro a temer? - Pria d'ogni cosa, io dunque
dico, che il tutto nel primier suo stato
tornar si debba; e pria rifarsi Roma,
poi vendicarla. Il che ai Romani è lieve.

ANTONIO - Io, consol, parlo; e spetta a me: non parla
chi orgogliose stoltezze al vento spande;
né alcun lo ascolta. - È mio parere, o padri,
che quanto il nostro dittatore invitto
chiede or da noi, (benché eseguire il possa
ei per se stesso omai) non pure intende
a tutta render la sua gloria a Roma,
ma che di Roma l'esser, la possanza,
la securtá ne pende. Invendicato
cadde in battaglia un roman duce mai?
Di vinta pugna i lor nemici mai
impuniti ne andar presso ai nostri avi?
Per ogni busto di roman guerriero,
nemiche teste a mille a mille poscia
cadean recise dai romani brandi.
Or, ciò che Roma, entro al confin ristretta
d'Italia sola, assentir mai non volle,
il soffrirebbe or che i confin del mondo
di Roma il sono? E, sorda fosse anch'ella
a sue glorie; poniam, che il Parto andarne
impunito lasciasse; a lei qual danno
non si vedria tornar dal tristo esemplo?
Popoli molti, e bellicosi, han sede
fra il Parto e noi: chi, chi terralli a freno,
se dell'armi romane il terror tace?
Grecia, Illiria, Macedoni, Germani,
Galli, Britanni, Ispani, Affrica, Egitto,
guerriera gente, che oltraggiata, e vinta,
d'ogni intorno ne accerchia, a Roma imbelle
vorrian servir? né un giorno sol, né un'ora.
Oltre all'onor, dunque innegabil grave
necessitade a vol nell'Asia spinge
l'aquile nostre a debellarla. - Il solo
duce a tanta vendetta a sceglier resta. -,
Ma al cospetto di Cesare, chi duce
osa nomarsi? - Altro eleggiamne, a patto,
ch'ei di vittorie, e di finite guerre,
e di conquiste, e di trionfi, avanzi
Cesare; o ch'anco in sol pugnar lo agguagli. -
Vile invidia che val? Cesare, e Roma,
sono in duo nomi omai sola una cosa;
poiché a Roma l'impero alto del mondo
Cesare sol rende, e mantiene. Aperto
nemico è dunque or della patria, iniquo
traditor n'è, chi a sua privata e bassa
picciola causa, la comun grandezza
e securtá posporre, invido, ardisce.

CASSIO - Io quell'iniquo or dunque, io sí, son quello,
cui traditore un traditore appella.
Primo il sono, e men vanto; or che in duo nomi
sola una cosa ell'è Cesare e Roma. -
Breve parla chi dice. Altri qui faccia,
con servili, artefatti, e vuoti accenti,
suonar di patria il nome: ove pur resti
patria per noi, su i casi suoi si aspetta
il risolvere ai padri; in nome io 'l dico
di lor; ma ai veri padri; e non, com'ora,
adunati a capriccio; e non per vana
forma a scherno richiesti; e non da vili
sgherri infami accerchiati intorno intorno,
e custoditi; e non in vista, e quasi
ascoltati da un popolo mal compro
da chi il pasce e corrompe. È un popol questo?
Questo, che libertade altra non prezza,
né conosce, che il farsi al bene inciampo,
e ad ogni male scudo? ei la sua Roma
nei gladiator del circo infame ha posta,
e nella pingue annona dell'Egitto.
Da una tal gente pria sgombro il senato
veggasi, e allor ciascun di noi si ascolti. -
Preaccennare il mio parer frattanto
piacemi, ed è: Che dittator non v'abbia,
poiché guerra or non v'ha; che eletti sieno
consoli giusti; che un senato giusto
facciasi; e un giusto popolo, e tribuni
veri il foro rivegga. Allor dei Parti
deliberar può Roma; allor, che a segni
certi, di nuovo riconoscer Roma
noi Romani potremo. Infin che un'ombra
vediam di lei fallace, i veri, e pochi
suoi cittadini apprestinsi per essa
a far gli ultimi sforzi; or che i suoi tanti
nemici fan gli ultimi lor contr'essa.

CICERONE - Figlio di Roma, e non ingrato, io l'amo
piú che me stesso: e Roma, il dí che salva
dall'empia man di Catilina io l'ebbi,
padre chiamommi. In rimembrarlo, ancora
di tenerezza e gratitudin sento
venirne il dolce pianto sul mio ciglio.
Sempre il pubblico ben, la pace vera,
la libertá, fur la mia brama; e il sono.
Morire io solo, e qual per Roma io vissi,
per lei deh possa! oh qual mi fia guadagno,
s'io questo avanzo di una trista vita
per lei consunta, alla sua pace io dono! -
Pel vero io parlo; e al canuto mio crine
creder ben puossi. Il mio parlar non tende,
né a piú inasprir chi dagli oltraggi molti
sofferti a lungo, inacerbita ha l'alma
giá di bastante, ancor che giusto, sdegno;
né a piú innalzare il giá soverchio orgoglio
di chi signor del tutto omai si tiene.
A conciliar (che ancor possibil fora)
col ben di ognuno il ben di Roma, io parlo. -
Giá vediam da gran tempo i tristi effetti
del mal fra noi snudato acciaro. I soli
nomi dei capi infrangitor di leggi
si andar cangiando, e con piú strazio sempre
della oppressa repubblica. Chi l'ama
davver fra noi, chi è cittadin di cuore,
e non di labro, ora il mio esemplo siegua.
Fra i rancor cupi ascosi, infra gli atroci
odj palesi, infra i branditi ferri,
(se pur l'Erinni rabide li fanno
snudar di nuovo) ognun di noi frapponga
inerme il petto: o ricomposti in pace
fian cosí quei discorsi animi feri;
o dalle inique spade trucidati
cadrem noi soli; ad onta lor, Romani
soli, e veraci, noi. - Son questi i sensi,
questi i sospiri, il lagrimare è questo
di un cittadin di Roma: al par voi tutti,
deh! lo ascoltate: e chi di gloria troppa
è carco giá, deh! non la offuschi, o perda,
tentando invan di piú acquistarne: e quale
all'altrui gloria invidia porta, or pensi
che invidia no, ma virtuosa eccelsa
gara in ben far, può sola i propri pregi
accrescer molto, e in nobil modo e schietto
scemar gli altrui. - Ma, poiché omai ne avanza
tanto in Roma a trattar, dei Parti io stimo,
per or si taccia. Ah! ricomposta, ed una,
per noi sia Roma; e ad un suo sguardo tosto,
Parti, e quanti altri abbia nemici estrani,
spariscon tutti, come nebbia al vento.

BRUTO - Cimbro, Cassio, e il gran Tullio, hanno i loro alti
romani sensi in sí romana guisa
esposti omai, che nulla a dir di Roma,
a chi vien dopo, resta. Altro non resta,
che a favellar di chi in se stesso ha posta
Roma, e neppur dissimularlo or degna. -
Cesare, a te, poiché in te solo è Roma,
di Roma no, di te parlare io voglio. -
Io non t'amo, e tu il sai; tu, che non ami
Roma; cagion del non mio amarti, sola:
te non invidio, perché a te minore
piú non mi estimo, da che tu sei fatto
giá minor di te stesso; io te non temo,
Cesare, no; perché a morir non servo
son presto io sempre: io te non odio, al fine,
perché in nulla ti temo. Or dunque, ascolta
qui il solo Bruto; e a Bruto sol dá fede;
non al tuo consol servo, che sí lungi
da tue virtudi stassi, e sol divide
teco i tuoi vizi, e gli asseconda, e accresce. -
Tu forse ancor, Cesare, merti (io 'l credo)
d'esser salvo; e il vorrei; perché tu a Roma
puoi giovar, ravvedendoti: tu il puoi,
come potesti nuocerle giá tanto.
Questo popol tuo stesso, (al vivo or dianzi
Cassio il ritrasse) il popolo tuo stesso,
ha pochi dí, del tuo poter ti fea
meno ebro alquanto. Udito hai tu le grida
di popolare indegnazione, il giorno,
che, quasi a giuoco, il regio serto al crine
leggiadramente cingerti tentava
la maestá del consol nuovo: udito
hai fremer tutti; e la regal tua rabbia
impallidir te fea. Ma il serto infame,
cui pur bramavi ardentemente in cuore,
fu per tua man respinto: applauso quindi
ne riscotevi universal; ma punte
eran mortali al petto tuo, le voci
del tuo popol, che in ver non piú romano,
ma né quanto il volevi era pur stolto.
Imparasti in quel dí, che Roma un breve
tiranno aver, ma un re non mai, potea.
Che un cittadin non sei, tu il sai, pur troppo
per la pace tua interna: esser tiranno
pur ti pesa, anco il veggio: e a ciò non eri
nato tu forse; or, s'io ti abborra, il vedi.
Svela su dunque, ove tu il sappi, a noi,
ed a te stesso in un, ciò ch'esser credi,
ciò ch'esser speri. - Ove nol sappi, impara,
tu dittator dal cittadino Bruto,
ciò ch'esser merti. Cesare, un incarco,
alto piú assai di quel che assumi, avanza.
Speme hai di farti l'oppressor di Roma;
liberator fartene ardisci, e n'abbi
certezza intera. - Assai ben scorgi, al modo
con cui Bruto ti parla, che se pensi
esser giá fatto a noi signor, non io
suddito a te per anco esser mi estimo.

ANTONIO - Del temerario tuo parlar la pena,
in breve, io 'l giuro...

CESARE - Or basti. - Io nell'udirvi
sí lungamente tacito, non lieve
prova novella ho di me dato; e, dove
me signor d'ogni cosa io pur tenessi,
non indegno il sarei; poich'io l'ardito
licenzioso altrui parlare osava,
non solo udir, ma provocare. A voi
abbastanza pur libera non pare
quest'adunanza ancor; benché d'oltraggi
carco v'abbiate il dittator, che oltraggi
può non udir, s'ei vuole. Al sol novello,
lungi dal foro, e senza armate scorte
che voi difendan dalla plebe, io, dunque
entro alla curia di Pompeo v'invito
a consesso piú franco. Ivi, piú a lungo,
piú duri ancora e piú insultanti detti,
udrò da voi: ma quivi, esser de' fermo
il destino dei Parti. Ove ai piú giovi,
non io dissento, ch'ivi fermo a un tempo
sia, ma dai piú, di Cesare il destino.


ATTO SECONDO


SCENA PRIMA

Cicerone, Cimbro.


CICERONE - Securo asilo, ove di Roma i casi
trattar, non resta, altro che questo...

CIMBRO - Ah! poco
ne resta a dir; solo ad oprar ne avanza.
In tuo nome invitati ho Cassio e Bruto
a qui venirne; e qui saranno in breve.
Nulla indugiar, fia il meglio; al sol novello
corre (ahi pur troppo!) il suo periglio estremo
la patria nostra.

CICERONE - È ver, che indugio nullo
piú non ponendo egli al disegno iniquo,
la baldanza di Cesare secura
ogni indugio a noi toglie. Altro ei non vuole,
che un esercito in armi; or, che convinto
per prova egli è, che della compra plebe
può men l'amore in suo favor, che il fero
terror di tutti. Ei degli oltraggi nostri
ride in suo cor; gridar noi lascia a vuoto:
pur che l'esercito abbia: e n'ha certezza
dalle piú voci, che in senato ei merca.
Di libertá le nostre ultime grida
scontar faranne al suo ritorno ei poscia
I romani guerrieri ai Parti incontro
guida ei, per dar l'ultimo crollo a Roma,
come a lei diè, del Reno in riva, i primi.
Tropp'oltre, troppo, è omai trascorso: or tempo,
anch'io il confesso, all'indugiar non havvi.
Ma, come il de' buon cittadino, io tremo:
rabbrividisco, in sol pensar, che forse
da quanto stiam noi per risolver, pende
il destino di Roma.

CIMBRO - Ecco venirne
Cassio ver noi.


SCENA SECONDA

Cassio, Cicerone, Cimbro.


CASSIO - Tardo venn'io? Ma pure,
non v'è per anco Bruto.

CIMBRO - In breve, ei giunge.

CASSIO - Me qui seguir volean molti de' nostri:
ma i delatori, in queste triste mura,
tanti son piú che i cittadini omai,
che a tormi appieno ogni sospetto, io volli
solo affatto venirne. Alla severa
virtú di Cimbro, e del gran Tullio al senno,
e all'implacabil ira mia, sol basti
aggiunger ora la sublime altezza
dello sdegno di Bruto. Altro consiglio
puossi unir mai, meglio temprato, ed atto
quindi a meglio adoprarsi a pro di Roma?

CICERONE - Deh, pur cosí voglian di Roma i Numi!
Io, quant'è in me, presto a giovar di tutto
sono alla patria mia: duolmi, che solo
debile un fiato di non verde etade
mi resti a dar per essa. Omai, con mano
poco oprar può la consunta mia forza;
ma, se con lingua mai liberi audaci
sensi, o nel foro, o nel senato, io porsi;
piú che il mai fossi, intrepid'oggi udrammi
Roma tuonar liberi accenti: Roma,
a cui, se estinta infra suoi ceppi or cade,
né sopravviver pur d'un giorno, io giuro.

CASSIO - Vero orator di libertá tu sempre
eri, e sublime il tuo parlar, fea forza
a Roma spesso: ma, chi omai rimane
degno di udirti? Od atterriti, o compri
son tutti omai; né intenderebber pure
sublimi tuoi sensi...

CICERONE - Il popol nostro,
benché non piú romano, è popol sempre:
e sia ogni uomo per sé, quanto piú il puote,
corrotto e vile, i piú si cangian, tosto
che si adunano i molti: io direi quasi,
che in comun puossi a lor prestar nel foro
alma tutt'altra, appien diversa in tutto,
da quella c'ha fra i lari suoi ciascuno.
Il vero, il falso, ira, pietá, dolore,
ragion, giustizia, onor, gloria per anco;
affetti son, che in cor si ponno
destar d'uomini molti (quai ch'ei sieno)
dall'uom che in cor, come fra' labri, gli abbia
tutti davvero. Ove pur vaglian detti
forti, liberi, ardenti, io non indarno
oggi salir spero in ringhiera; e voglio
ivi morir, s'è d'uopo. - Al poter rio
di quel Cesare stesso, onde or si trema,
quale origine base ei stesso dava?
La opinion dei piú. Col brando ei doma,
le Gallie, è ver; ma con la lingua ei doma,
coi lusinghieri artificiosi accenti,
le sue legion da prima, e in parte poscia
il popol anco: ei sol, né spegner tutti,
né comprar tutti allor potea: far servi
ben tutti or può quei che ingannati ha pria.
E noi del par con lingua non potremmo
disingannare, illuminar, far sani,
e gl'intelletti e i cuori? Infra il mio dire,
e il favellar del dittator tiranno,
sta la forza per lui, per me sta il vero:
se mi si presta orecchio, ancor pur tanto
mi affido io, sí, nel mio sublime tema,
ch'armi non curo. A orecchi e cor, giá stati
romani un dí, giunger può voce ancora,
che romani per breve almen li torni.
Svelato appien, Cesare vinto è appieno.

CIMBRO - Dubbio non v'ha: se ti ascoltasse Roma,
potria il maschio tuo dir tornarla in vita:
ma, s'anco tu scegliessi, generoso,
di ascender solo, e di morir su i rostri,
ch'or son morte a chi il nome osa portarvi
di libertá; s'anco tu sol ciò ardissi;
tolto pur sempre dalle infami grida
di prezzolata vil genía ti fora,
l'esser udito. Ella omai sola tiene
del foro il campo, e ogni dritt'uom sbandisce.
Non è piú al Tebro Roma: armi, e virtudi,
e cittadini, or ricercar si denno
nelle estreme provincie. A guerra aperta
duro assai troppo è il ritornar; ma pace
pur non è questa. I pravi umor, che tanti
tra viva e morta opprimon Roma, è forza
(pur troppo!) ancor col sangue ripurgarli.
Romano al certo era Catone; e il sangue
dei cittadini spargere abborriva;
pur, quel giusto de' giusti anco il dicea:
« Dall'armi nata, e omai dall'armi spenta,
non può riviver che dall'armi, Roma ».
Ch'altro a far ne rimane? O Roma è vinta,
e con lei tutti i cittadin veraci
cadono; o vince, e annichiliti spersi
sono, o cangiati, i rei. Cesare forse
la vittoria allacciò? sconfitto ei venga
solo una volta; e la sua stessa plebe,
convinta che invincibile ei non era,
conoscerallo allora; a un grido allora
tutti ardiran tiranno empio nomarlo,
e come tal proscriverlo.

CASSIO - Proscritto
perché non pria da noi? Da un popol vile
tal sentenza aspettiam, qualor noi darla,
quando eseguirla il possiam noi primieri?
Fin che ad arbitrio nostro, a Roma in mezzo,
entro a sue case, infra il senato istesso,
possiam combatter Cesare, e compiuta
noi riportarne palma; in campo, a costo
di tante vite della sua men empie,
a pugna iniqua ei provocar dovrassi,
e forse per non vincerlo? Ove un brando,
questo mio solo, e la indomabil ira
che snudar mel fará, bastano, e troppo
fiano, a troncar quella sprezzabil vita,
che Roma or tutta indegnamente in pianto
tiene allacciata e serva; ove non altro
a trucidar qual sia il tiranno vuolsi,
che solo un brando, ed un Roman che il tratti;
perché, perché, tanti adoprarne? - Ah! segga
altri a consiglio, e ponderi, e discúta,
e ondeggi, e indugi, infin che manchi il tempo:
io tra i mezzi il miglior stimo il piú breve:
or piú, di tanto, che il piú breve a un tratto
fia 'l piú ardito, il piú nobile, il piú certo.
Degno è di Roma il trucidar quest'uno
apertamente; e di morir pur merta,
di man di Cassio, Cesare. All'altrui
giusto furor lascio il punir l'infame
servo-console Antonio. - Ecco, vien Bruto:
udiam, udiam, s'ei dal mio dir dissenta.


SCENA TERZA

Bruto, Cicerone, Cassio, Cimbro.


CICERONE - Sí tardo giunge a cotant'alto affare
Bruto?...

BRUTO - Ah! primiero io vi giungea, se tolto
finor non m'era...

CIMBRO - E da chi mai?

BRUTO - Pensarlo,
nullo il potria di voi. Parlarmi a lungo
volle Antonio finora.

CICERONE - Antonio?

CASSIO - E il vile
satellite di Cesare otteneva
udienza da Bruto?

BRUTO - Ebbela, e in nome
del suo Cesare stesso. Egli abboccarsi
vuol meco, ad ogni patto: a lui venirne
m'offre, s'io il voglio; o ch'egli a me...

CIMBRO - Certo, ebbe
da te ripulsa...

BRUTO - No. Cesare amico,
al cor mio schietto or piú terror non reca,
che Cesare nemico. Udirlo io quindi
voglio, e fra breve, e in questo tempio stesso.

BRUTO - Ma, che mai vuol da te?

CASSIO - Comprarmi; forse.
Ma in Bruto ancor, voi vi affidate, io spero.

CASSIO - Piú che in noi stessi.

CIMBRO - Affidan tutti in Bruto;
anco i piú vili.

BRUTO - E a risvegliarmi, in fatti,
(quasi io dormissi) infra' miei passi io trovo
disseminati incitatori avvisi:
brevi, forti, romani; a me di laude
e biasmo in un, come se lento io fossi
a ciò che vuol Roma da me. Nol sono;
ed ogni spron mi è vano.

CASSIO - Ma, che speri
dal favellar con Cesare?...

CICERONE - Cangiarlo
tu speri forse...

BRUTO - E piacemi, che il senno
del magnanimo Tullio, al mio disegno
si apponga in parte.

CASSIO - Oh! che di' tu? Noi tutti,
lungamente aspettandoti, qui esposto
abbiamo a lungo il parer nostro: un solo
fummo in Cesare odiar, nell'amar Roma,
e nel voler morir per lei: ma fummo
tre diversi nel modo. Infra il tornarne
alla civile guerra; o il popol trarre
d'inganno, e all'armi; o col privato ferro
svenar Cesare in Roma; or di', qual fora
il partito di Bruto?

BRUTO - Il mio? - Nessuno,
per or, di questi. Ove fia vano poscia
il mio, scerrò pur sempre il terzo.

CASSIO - Il tuo?
E qual altro ne resta?

BRUTO - A voi son noto:
parlar non soglio invan: piacciavi udirmi. -
Per sanarsi in un giorno, inferma troppo
è Roma ormai. Puossi infiammar la plebe,
ma per breve, a virtú; che mai coll'oro
non si tragge al ben far, come coll'oro
altri a viltá la tragge. Esser può compra
la virtú vera, mai? Fallace base
a libertá novella il popol guasto
sarebbe adunque. Ma, il senato è forse
piú sano? annoverar si pon gli schietti;
odian Cesare in core i rei pur anco,
non perch'ei toglie libertade a tutti
ma perché a lor, tiranno unico, ei toglie
d'esser tiranni. A lui succeder vonno;
lo abborriscon perciò.

CICERONE - Cosí non fosse
come vero è, pur troppo!

BRUTO - Ir cauto il buono
cittadin debbe, infra bruttura tanta,
per non far peggio. Cesare è tiranno;
ma non sempre lo è stato. Il vil desio
d'esser pieno signore, in cor gli sorge
da non gran tempo: e il vile Antonio, ad arte,
inspirando gliel va, per trarlo forse
a sua rovina, e innalzar sé sovr'esso.
Tali amici ha il tiranno.

CASSIO - Innata in petto
la iniqua brama di regnar sempr'ebbe
Cesare...

BRUTO - No; non di regnar: mai tanto
non osava ei bramare. Or tu l'estimi
piú grande, e ardito, che nol fosse ei mai.
Necessitá di gloria, animo ardente,
anco il desir non alto di vendetta
dei privati nemici, e in fin piú ch'altro,
l'occasion felice, ivi l'han spinto,
dove giunge ora attonito egli stesso
del suo salire. Entro il suo cuor può ancora
desio d'onor, piú che desio di regno.
Provar vel deggio? Or, non disegna ei forse
d'ir contra i Parti, e abbandonar pur Roma,
ove tanti ha nemici?

CIMBRO - Ei mercar spera
con l'alloro dei Parti il regio serto.

BRUTO - Dunque a virtú, piú assai che a forza, ei vuole
del regio serto esser tenuto: ei dunque
ambizioso è piú che reo...

CASSIO - Sue laudi
a noi tu intessi?...

BRUTO - Udite il fine. - Ondeggia
Cesare ancora infra se stesso; ei brama
la gloria ancor; non è dunqu'egli in core
perfetto ancor tiranno: ma, ei comincia
a tremar pure, e finor non tremava;
vero tiranno ei sta per esser dunque.
Timor lo invase, ha pochi dí, nel punto
che il venduto suo popolo ei vedea
la corona negargli. Ma, qual sia,
non è sprezzabil Cesare, né indegno
ch'altri a lui schiuda al ravvedersi strada.
Io per me deggio, o dispregiar me stesso,
o lui stimar; poiché pur volli a lui
esser tenuto io della vita, il giorno
ch'io ne' campi farsalici in sue mani
vinto cadeva. Io vivo; e assai gran macchia
è il mio vivere a Bruto; ma saprolla
io scancellar, senza esser vil, né ingrato.

CICERONE - Dell'armi è tal spesso la sorte: avresti
tu, se il vincevi, la vittoria seco
pure usata cosí. Non ebbe in dono
Cesare stesso anch'ei sua vita, a Roma
or sí fatale? in don la vita anch'egli,
per grazia espressa, e vieppiú espresso errore,
non ricevea da Silla?

BRUTO - È vero; eppure
mai non mi scordo i beneficj altrui:
ma il mio dover, e la mia patria a un tempo,
in cor ben fitti io porto. A Bruto, in somma,
Cesare è tal, che dittator tiranno,
(qual è, qual fassi ogni dí piú) nol vuole
Bruto lasciare a patto nullo in vita;
e vuol svenarlo, o esser svenato ei stesso...
Ma, tale in un Cesare a Bruto appare,
che libertade, e impero, e nerbo, e vita
render, per ora, ei solo il puote a Roma,
s'ei cittadin ritorna. È della plebe
l'idolo giá; norma divenga ai buoni;
faccia de' rei terrore esser le leggi:
e, finché torni al prisco stato il tutto,
dal disfar leggi al custodirle sia
il suo poter converso. Ei d'alti sensi
nacque; ei fu cittadino: ancor di fama
egli arde: è cieco, sí; ma tal lo han fatto
sol la prospera sorte, e gli empj amici,
che fatto gli hanno della gloria vera
l'orme smarrire. O che il mio dire è un nulla;
o ch'io parole sí incalzanti e calde
trar dal mio petto, e sí veraci e forti
ragion tremende addur saprogli, e tante,
ch'io sí, sforzar Cesare spero; e farlo
grande davvero, e di virtú sí pura,
ch'ei sia d'ogni uom, d'ogni Romano, il primo;
senza esser piú che un cittadin di Roma.
Sol che sua gloria a Roma giovi, innanzi
io la pongo alla mia: ben salda prova
questo disegno mio, parmi, saranne. -
Ma, se a Cesare or parla indarno Bruto,
tu il vedi, o Cassio con me sempre io 'l reco;
ecco il pugnal, ch'a uccider lui fia ratto,
piú che il tuo brando...

CICERONE - Oh cittadin verace!
Grande sei troppo tu; mal da te stesso
tu puoi conoscer Cesare tiranno.

CASSIO - Sublime Bruto, una impossibil cosa,
ma di te degna, in mente volgi; e solo
tentarla puoi. Non io mi oppongo: ah! trarti
d'inganno appien, Cesare solo il puote.

CIMBRO - Far d'un tiranno un cittadino? O Bruto,
questa tua speme generosa, è prova
ch'esser tu mai tiranno non potresti.

BRUTO - Chiaro in breve fia ciò: d'ogni oprar mio
qui poi darovvi pieno conto io stesso. -
Ov'io vano orator perdente n'esca,
tanto piú acerbo feritor gagliardo
a' cenni tuoi, Cassio, mi avrai; tel giuro.


ATTO TERZO


SCENA PRIMA

Cesare, Antonio.


ANTONIO - Cesare, sí; fra poco a te vien Bruto
in questo tempio stesso, ove a te piacque
gli arroganti suoi sensi udir pur dianzi,
e tollerarli. Il riudrai fra breve
da solo a sol, poiché tu il vuoi.

CESARE - Ten sono
tenuto assai: lieve non era impresa
il piegar Bruto ad abboccarsi or meco;
né ad altri mai, fuorché ad Antonio, darne
osato avrei lo incarco.

ANTONIO - Oh! quanto duolmi,
che a' detti miei tu sordo ognor, ti ostini
in sopportar codesto Bruto! Il primo
de' tuoi voler fia questo, a cui si arrenda
di mala voglia Antonio. In suon d'amico
pregar pur volli, e in nome tuo, colui,
che mortal tuo nemico a certa prova
esser conosco, e come tale abborro.

CESARE - Odian Cesare molti: eppur, sol uno
nemico io conto, che di me sia degno:
e Bruto egli è.

ANTONIO - Quindi or, non Bruto solo,
ma Bruto prima, e i Cassj, e i Cimbri poscia,
e i Tullj, e tanti uccider densi, e tanti.

CESARE - Quant'alto è piú, quanto piú acerbo e forte
il nemico, di tanto a me piú sempre
piacque il vincerlo; e il fea, piú che con l'armi,
spesso assai col perdono. Ai queti detti
ricorrer, quando adoprar puossi il ferro;
persuader, convincere, far forza
a un cor pien d'odio, e farsi essere amico
l'uomo, a cui torre ogni esser puossi; ah! questa
contro a degno nemico è la vendetta
la piú illustre; e la mia.

ANTONIO - Cesare apprenda
sol da se stesso ad esser grande: il fea
natura a ciò: ma il far securi a un tempo
Roma e sé, da chi gli ama ambo del pari
oggi ei l'apprenda: e sovra ogni uom, quell'uno
son io. Non cesso di ridirti io mai,
che se Bruto non spegni, in ciò ti preme
piú assai la vana tua gloria privata,
che non la vera della patria; e poco
mostri curar la securtá di entrambi.

CESARE - E atterrir tu con vil sospetto forse
Cesare vuoi?

ANTONIO - Se non per sé, per Roma
tremar ben può Cesare anch'egli, e il debbe.

CESARE - Morir per Roma, e per la gloria ei debbe;
non per sé mai tremar, né mai per essa.
Vinti ho di Roma io gl'inimici in campo;
quei soli eran di Cesare i nemici.
Tra quei che il ferro contro a lei snudaro,
un d'essi è Bruto; io giá coll'armi in mano
preso l'ebbi, e perire allor nol fea
col giusto brando della guerra; ed ora
fra le mura di Roma, inerme (oh cielo!)
col reo pugnal di fraude, o con la ingiusta
scure, il farei trucidar io? Non havvi
ragion, che trarmi a eccesso tal mai possa:
s'anco il volessi, ... ah! forse... io nol... potrei. -
Ma in somma, ai tanti mie' trionfi manca
quello ancora dei Parti, e quel di Bruto:
questo all'altro fia scala. Amico farmi
Bruto voglio, a ogni costo. Il far vendetta
del trucidato Crasso, a tutto innanzi
per ora io pongo; e può giovarmi assai
Bruto all'impresa, in cui riposta a un tempo
fia la gloria di Cesare e di Roma.

ANTONIO - Puoi tu accrescerti fama?

CESARE - Ove da farsi
altro piú resta, il da me fatto io stimo
un nulla: è tal l'animo mio. Mi tragge
or contra il Parto irresistibil forza.
Vivo me, Roma rimanersi vinta?
Ah! mille volte pria Cesare pera. -
Ma, di discordie, e d'atri umor perversi,
piena lasciar pur la cittá non posso,
mentre in Asia guerreggio: né lasciarla
piena di sangue e di terror vorrei;
benché a frenarla sia tal mezzo il certo.
Bruto può sol tutto appianarmi...

ANTONIO - E un nulla
reputi Antonio dunque?

CESARE - - Di me parte
sei tu nelle guerriere imprese mie:
quindi terror dei Parti anche te voglio
al fianco mio. Giovarmi in altra guisa
di Bruto io penso.

ANTONIO - Io ogni guisa io presto
sono a servirti; e il sai. Ma, cieco troppo
sei, quanto a Bruto.

CESARE - Assai piú cieco è forse
ei quanto a me. Ma il dí fia questo, io spero,
che il potrò tor d'inganno: oggi mi è forza
ciò almen tentare...

ANTONIO - Eccolo appunto.

CESARE - Or, seco
lasciami; in breve a te verronne.

ANTONIO - Appieno,
deh! tu d'inganno trar te stesso possa;
e in tempo ancor conoscer ben costui!


SCENA SECONDA

Bruto, Cesare.


BRUTO - Cesare, antichi noi nemici siamo:
ma il vincitor sei tu finora, ed anco
il piú felice sembri. Io, benché il vinto
paia, di te men misero pur sono.
Ma, qual che il nostro animo sia, battuta,
vinta, egra, oppressa, moribonda, è Roma.
Pari desir, cagion diversa molto,
tratti qui ci hanno ad abboccarci. A dirmi
gran cose hai tu, se Antonio il ver narrommi;
ed io pure alte cose a dirti vengo,
se ascoltarle tu ardisci.

CESARE - Ancor che Bruto
stato sia sempre a me nemico, a Bruto
non l'era io mai, né il son; né, se il volessi,
esserlo mai potrei. Venuto io stesso
a favellarti in tua magion saria;
ma temea, che ad oltraggio tel recassi;
Cesare osarne andar, dove consorte
a Bruto sta del gran Caton la suora:
quind'io con preghi a qui venirne invito
ti fea. - Me sol, senza littori, e senza
pompa nessuna, vedi; in tutto pari
a Bruto; ove pur tale ei me non sdegni.
Qui non udrai, né il dittator di Roma,
né il vincitor del gran Pompeo...

BRUTO - Corteggio
sol di Cesare degno, è il valor suo:
e vieppiú quando ei si appresenta a Bruto. -
Felice te, se addietro anco tu puoi,
come le scuri ed i littor, lasciarti
ed i rimorsi e il perpetuo terrore,
di un dittator perpetuo!

CESARE - Terrore?
Non che al mio cor, non è parola questa,
nota pure al mio orecchio.

BRUTO - Ignota ell'era
al gran Cesare in campo invitto duce;
non l'è a Cesare in Roma, ora per forza
suo dittatore. È generoso troppo,
per negarmelo. Cesare: e, senz'onta,
può confessarlo a Bruto. Osar ciò dirmi,
di tua stessa grandezza è assai gran parte.
Franchi parliam: degno è d'entrambi. - Ai molti
incuter mai timor non puote un solo,
senza ei primo tremare. Odine, in prova
qual sia ver me il tuo stato. Uccider Bruto,
senza contrasto il puoi: sai, ch'io non t'amo;
sai, che a tua iniqua ambizione inciampo
esser poss'io: ma pur, perché nol fai?
Perché temi, che a te piú danno arrechi
l'uccidermi ora. Favellarmi, intanto,
e udirmi vuoi, perché il timor ti è norma
unica omai; né il sai tu stesso forse;
o di saperlo sfuggi.

CESARE - Ingrato! ... e il torre
di Farsaglia nei campi a te la vita,
forse in mia man non stette?

BRUTO - Ebro tu allora
di gloria, e ancor della battaglia caldo,
eri grande: e per esserlo sei nato:
ma qui, te di te stesso fai minore,
ogni dí piú. - Ravvediti; conosci,
che tu, freddo pacifico tiranno
mai non nascesti, io te l'affermo...

CESARE - Eppure,
misto di oltraggi il tuo laudar mi piace.
T'amo; ti estimo: io vorrei solo al mondo
esser Bruto, s'io Cesare non fossi.

BRUTO - Ambo esser puoi; molto aggiungendo a Bruto,
nulla togliendo a Cesare: ten vengo
a far l'invito io stesso. In te sta solo
l'esser grande davvero: oltre ogni sommo
prisco Romano, essere tu il puoi: fia il mezzo
semplice molto; osa adoprarlo: io primo
te ne scongiuro; e di romano pianto,
in ciò dirti, mi sento umido il ciglio... -
Ma, tu non parli? Ah! tu ben sai, qual fora
l'alto mio mezzo: in cor tu 'l senti, il grido
di veritá, che imperiosa tuona.
Ardisci, ardisci; il laccio infame scuoti,
che ti fa nullo a' tuoi stessi occhi; e avvinto
ti tiene, e schiavo, piú che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.
S'io di tua gloria invido fossi, udresti
or me pregarti ad annullar la mia?
Conosco il ver; me non lusingo: in Roma,
a te minor di dignitade, e d'anni,
e di possanza, e di trionfi, io sono,
come di fama. Se innalzarsi il nome
di Bruto può col proprio volo, il puote
soltanto omai su la rovina intera
del nome tuo. Sommessa odo una voce,
timida, e quindi non romana affatto,
Bruto appellar liberator di Roma,
come oppressor ten chiama. A farmi io tale,
ch'io ti sconfigga, o ch'io ti spenga, è d'uopo.
Lieve il primo non è; piú che nol credi
lieve il secondo: e, se a me sol pensassi,
tolto il signor giá mi sarei: ma penso,
romano, a Roma; e sol per essa io scelgo
di te pregar, quando te uccider debbo,
Cesare, ah! sí, tu cittadin tornarne
a forza dei, da me convinto. A Roma
tu primo puoi, tu sol, tu mille volte
piú il puoi di Bruto, a Roma render tutto;
pace, e salvezza, e gloria, e libertade:
quanto le hai tolto, in somma. Ancor per breve
tu cittadin tua regia possa adopra,
nel render forza alle abbattute leggi,
nel tor per sempre a ogni uom l'ardire e i mezzi
d'imitarti tiranno; e hai tolto a un tempo
a ogni uom, per quanto ei sia roman, l'ardire
di pareggiarti cittadino. - Or, dimmi:
ti estimi tu minor di Silla? Ei, reo
piú assai di te, piú crudo, di piú sangue
bagnato e sazio; ei, cittadin pur anco
farsi ardiva, e fu grande. Oh! quanto il fora
Cesare piú, che di possanza è giunto
oltre a Silla di tanto! Altra, ben altra
fia gloria a te, se tu spontaneo rendi
a chi si aspetta, ciò che possa ed arte
ti dier; se sai meglio apprezzar te stesso;
se togli, in somma, che in eterno in Roma
nullo Cesare mai, né Silla, rieda.

CESARE - - Sublime ardente giovine; il tuo ratto
forte facondo favellar, pur troppo!
vero è fors'anche. Ignota forza al core
mi fan tuoi detti; e allora che a me ti chiami
minore, io 'l sento, ad onta mia, di quanto
maggior mi sei. Ma, il confessarlo io primo,
e il non n'essere offeso, e il non odiarti
sicure prove esser ti denno, e immense,
che un qualche strano affetto io pur nudrisco
per te nel seno. - A me sei caro, il credi;
e molto il sei. - Ciò ch'io di compier, tempo
omai non ho, meglio da te compiuto
vo' ch'ei sia, dopo me. Lascia, ch'io aggiunga
a' miei trionfi i debellati Parti:
ed io contento muojo. In campo ho tratto
di mia vita gran parte; il campo tomba
mi fia sol degna. Ho tolta, è vero, in parte
la libertá, ma in maggior copia ho aggiunto
gloria a Roma, e possanza: al cessar mio,
ammenderai di mie vittorie all'ombra
tu, Bruto, i danni, ch'io le fea. Secura
posare in me piú non può Roma: il bene
ch'io vorrei farle, avvelenato ognora
fia dal mal che le ho fatto. Io quindi ho scelto,
in mio pensiero, alle sue interne piaghe
te sanatore: integro sempre, e grande,
stato sei tu: meglio di me, puoi grandi
far tu i Romani, ed integri tornarli.
Io, qual padre, ti parlo;... e, piú che figlio,
o Bruto mio, mi sei.

BRUTO - ... Non m'è ben chiaro
questo tuo favellare. A me non puote
in guisa niuna mai toccar la ingiusta
sterminata tua possa. E che? tu parli
di Roma giá, quasi d'un tuo paterno
retaggio?...

CESARE - Ah! m'odi. - A te piú omai non posso
nasconder cosa, che a te nota, or debbe
cangiarti affatto in favor mio.

BRUTO - Cangiarmi
puoi, se ti cangi; e se te stesso vinci;
trionfo sol, che a te rimanga...

CESARE - Udito
che avrai l'arcano, altro sarai.

BRUTO - Romano
sarò pur sempre. Ma, favella.

CESARE - ... O Bruto,
nel mio contegno teco, e ne' miei sguardi,
e ne' miei detti, e nel tacer mio stesso,
di', non ti par che un smisurato affetto
per te mi muova e mi trasporti?

BRUTO - È vero;
osservo in te non so qual moto; e parmi
d'uom piú assai, che di tiranno: e finto
creder nol posso; e schietto, attribuirlo
a che non so.

CESARE - ... Ma tu, per me quai senti
moti entro al petto?

BRUTO - Ah! mille: e invidia tranne,
tutti per te provo a vicenda i moti.
Dir non li so; ma, tutti in due gli stringo:
se tiranno persisti, ira ed orrore;
s'uom tu ritorni e cittadino, immenso
m'inspiri amor di maraviglia misto.
Qual vuoi dei due da Bruto?

CESARE - Amore io voglio:
e a me tu il dei... Sacro, infrangibil nodo
a me ti allaccia.

BRUTO - A te? qual fia?...

CESARE - Tu nasci
vero mio figlio.

BRUTO - Oh ciel! che ascolto?...

CESARE - Ah! vieni,
figlio, al mio seno...

BRUTO - Esser potria?...

CESARE - Se forse
a me nol credi, alla tua madre istessa
il crederai. Questo è un suo foglio; io l'ebbi
in Farsaglia, poche ore anzi alla pugna.
Mira; a te nota è la sua mano: ah! leggi.

BRUTO - (Legge il foglio.) « Cesare (oh ciel!) stai per combatter forse,
Pompeo non pure, e i cittadini tuoi,
ma il tuo proprio figliuolo. È Bruto il frutto
de' nostri amori giovenili. È forza,
ch'io te lo sveli; a ciò null'altro trarmi
mai non potrebbe, che il timor di madre.
Inorridisci, o Cesare; sospendi,
se ancor n'è tempo, il brando: esser tu ucciso
puoi dal tuo figlio; o di tua man tu stesso
puoi trucidarlo. Io tremo... Il ciel, deh! voglia,
che udito in tempo abbiami un padre!... Io tremo...
Servilia. » - Oh colpo inaspettato e fero!
Io di Cesare figlio?

CESARE - Ah! sí, tu il sei.
Deh! fra mie braccia vieni.

BRUTO - Oh padre!... Oh Roma!
Oh natura!... Oh dover!... - Pria d'abbracciarti,
mira, a' tuoi piè prostrato Bruto cade;
né sorgerá, se in te di Roma a un tempo
ei non abbraccia il padre.

CESARE - Ah! sorgi, o figlio. -
Deh! come mai sí gelido e feroce
rinserri il cor, che alcun privato affetto
nulla in te possa?

BRUTO - E che? credi or tu forse
d'amar tuo figlio? Ami te stesso; e tutto
serve in tuo core al sol desio di regno.
Mostrati, e padre, e cittadin; che padre
non è tiranno mai: deh! tal ti mostra;
e un figlio in me ritroverai. La vita
dammi due volte: io schiavo, esser nol posso;
tiranno, esser nol voglio. O Bruto è figlio
di liber'uom, libero anch'egli, in Roma
libera: o Bruto, esser non vuole. Io sono
presto a versar tutto per Roma il sangue;
e in un per te, dove un Roman tu sii,
vero di Bruto padre... Oh gioja! io veggo
sul tuo ciglio spuntare un nobil pianto?
Rotto è del cor l'ambizioso smalto;
padre or tu sei. Deh! di natura ascolta
per bocca mia le voci; e Bruto, e Roma,
per te sien uno.

CESARE - ... Il cor mi squarci... Oh dura
necessitá!... Seguir del core i moti
soli non posso. - Odimi, amato Bruto. -
Troppo il servir di Roma è omai maturo:
con piú danno per essa, e men virtude,
altri terralla, ove tenerla nieghi
Bruto di man di Cesare...

BRUTO - Oh parole!
Oh di corrotto animo servo infami
sensi! - A me, no, non fosti, né sei padre.
Pria che svelarmi il vil tuo core, e il mio
vil nascimento, era pietá piú espressa
me trucidar, tu, di tua mano...

CESARE - Oh figlio!...

BRUTO - Cedi, o Cesare...

CESARE - Ingrato, ... snaturato...
che far vuoi dunque?

BRUTO - O salvar Roma io voglio,
o perir seco.

CESARE - Io ravvederti voglio,
o perir di tua mano. Orrida, atroce
è la tua sconoscenza... Eppure, io spero,
ch'onta ed orror ne sentirai tu innanzi
che in senato ci vegga il dí novello. -
Ma, se allor poi nel non volermi padre
ti ostini, ingrato; e se, qual figlio, sdegni
meco divider tutto; al dí novello,
signor mi avrai.

BRUTO - - Giá pria d'allora, io spero,
l'onta e l'orror d'esser tiranno indarno,
ti avran cangiato in vero padre. - In petto
non puommi a un tratto germogliar di figlio
l'amor, se tu forte e sublime prova
pria non mi dai del tuo paterno amore.
D'ogni altro affetto è quel di padre il primo;
e nel tuo cor de' vincere. Mi avrai
figlio allora, il piú tenero, il piú caldo,
il piú sommesso, che mai fosse... Oh padre!
Qual gioja allor, quanta dolcezza, e quanto
orgoglio avrò d'esserti figlio!...

CESARE - Il sei,
qual ch'io mi sia: né mai contro al tuo padre
volger ti puoi, senza esser empio...

BRUTO - Ho nome
Bruto; ed a me, sublime madre è Roma. -
Deh! non sforzarmi a reputar mio vero
genitor solo quel romano Bruto,
che a Roma e vita e libertá, col sangue
de' propri suoi svenati figli, dava.


SCENA TERZA

Cesare.


CESARE - Oh me infelice!... E fia pur ver, che il solo
figliuol mio da me vinto or non si dica,
mentr'io pur tutto il vinto mondo affreno?


ATTO QUARTO


SCENA PRIMA

Cassio, Cimbro.


CIMBRO - Quant'io ti dico, è certo: uscir fu visto
Bruto or dianzi di qui; turbato in volto,
pregni di pianto gli occhi, ei si avviava
ver le sue case. Oh! potrebbe egli mai
cangiarsi?...

CASSIO - Ah! no. Bruto ama Roma; ed ama
la gloria, e il retto. A noi verrá tra breve,
come il promise. In lui, piú che in me stesso,
credo, e mi affido. Ogni suo detto, ed opra,
d'alto cor nasce; ei della patria sola
l'util pondera, e vede.

CIMBRO - Eccolo appunto.

CASSIO - Non tel diss'io?


SCENA SECONDA

Bruto, Cassio, Cimbro.


BRUTO - Che fia? voi soli trovo?

CASSIO - E siam noi pochi, ove tu a noi ti aggiungi?

BRUTO - Tullio manca...

CIMBRO - Nol sai? precipitoso
ei con molti altri senatori usciva
di Roma or dianzi.

CASSIO - Il gel degli anni in lui
l'ardir suo prisco, e la virtude agghiaccia...

BRUTO - Ma non l'estingue. Ah! niun Romano ardisca
il gran Tullio spregiar. Per esso io 'l giuro,
che a miglior uopo, a pro di Roma, ei serba
e libertade e vita.

CASSIO - Oh noi felici!
Noi certi almen, siam certi, o di venirne
a onorata laudevole vecchiezza,
liberi; o certi, di perir con Roma,
nel fior degli anni.

BRUTO - Ah! sí; felici voi!...
Nol son io, no; cui riman scelta orrenda
fra il morir snaturato, o il viver servo.

CASSIO - Che dir vuoi tu?

CIMBRO - Dal favellar tuo lungo
col dittator, che ne traesti?

BRUTO - Io?... nulla
per Roma; orrore e dolor smisurato
per me; stupor per voi, misto fors'anco
di un giusto sprezzo.

CIMBRO - E per chi mai?

BRUTO - Per Bruto.

CIMBRO - Spregiarti noi?

CASSIO - Tu, che di Roma sei,
e di noi, l'alma?...

BRUTO - Io son,... chi 'l crederia?...
Misero me!... Finor tenuto io m'era
del divin Cato il genero, e il nipote;...
e del tiranno Cesare io son figlio.

CIMBRO - Che ascolto? Esser potrebbe?...

CASSIO - E sia: non toglie,
che il piú fero nemico del tiranno
non sia Bruto pur sempre: ah! Cassio il giura.

BRUTO - Orribil macchia inaspettata io trovo
nel mio sangue; a lavarla, io tutto il deggio
versar per Roma.

CASSIO - O Bruto, di te stesso
figlio esser dei.

CIMBRO - Ma pur, quai prove addusse
Cesare a te? Come a lui fede?...

BRUTO - Ah! prove,
certe pur troppo, ei mi adducea. Qual padre
ei da pria mi parlava: a parte pormi
dell'esecrabil suo poter volea
per ora, e farmen poscia infame erede.
Dal tirannico ciglio umano pianto
scendea pur anco; e del suo guasto cuore,
senza arrossir, le piú riposte falde,
come a figlio, ei mi apriva. A farmi appieno
convinto in fine, un fatal foglio (oh cielo!)
legger mi fea. Servilia a lui vergollo
di proprio pugno. In quel funesto foglio,
scritto pria che si alzasse il crudel suono
della tromba farsalica, tremante
Servilia svela, e afferma, ch'io son frutto
dei loro amori; e in brevi e caldi detti,
ella scongiura Cesare a non farsi
trucidator del proprio figlio.

CIMBRO - Oh fero,
funesto arcano! entro all'eterna notte
che non restasti?...

CASSIO - E se qual figlio ei t'ama,
nel veder tanta in te virtú verace,
nell'ascoltar gli alti tuoi forti sensi,
come resister mai di un vero padre
potea pur l'alma? Indubitabil prova
ne riportasti omai, che nulla al mondo
Cesare può dal vil suo fango trarre.

BRUTO - Talvolta ancora il ver traluce all'ebbra
mente sua, ma traluce in debil raggio.
Uso in campo a regnar or giá molti anni,
fero un error lo invesca; ei gloria somma
stima il sommo poter; quindi ei s'ostina
a voler regno, o morte.

CIMBRO - E morte egli abbia
tal mostro dunque.

CASSIO - Incorreggibil, fermo
tiranno egli è. Pensa omai dunque, o Bruto,
che un cittadin di Roma non ha padre...

CIMBRO - E che un tiranno non ha figli mai...

BRUTO - E che in cor mai non avrá Bruto pace. -Sí,
generosi amici, al nobil vostro
cospetto io 'l dico: a voi, che in cor sentite
sublimi e sacri di natura i moti;
a voi, che impulso da natura, e norma,
pigliate all'alta necessaria impresa,
ch'or per compiere stiamo; a voi, che solo
per far securi in grembo al padre i figli,
meco anelate or di troncar per sempre
la tirannia che parte e rompe e annulla
ogni vincol piú santo; a voi non temo
tutto mostrare il dolore, e l'orrore,
che a brani a brani il cuor squarciano a gara
di me figlio di Cesare e di Roma.
Nemico aspro, implacabil, del tiranno
io mi mostrava in faccia a lui; né un detto,
né un moto, né una lagrima appariva
di debolezza in me; ma, lunge io appena
dagli occhi suoi, di mille furie in preda
cadeami l'alma. Ai lari miei men corro:
ivi, sicuro sfogo, alto consiglio,
cor piú sublime assai del mio, mi è dato
di ritrovar: fra' lari miei la illustre
Porzia di Cato figlia, a Cato pari,
moglie alberga di Bruto...

CASSIO - E d'ambo degna
è la gran donna.

CIMBRO - Ah! cosí stata il fosse
anco Servilia!

BRUTO - Ella, in sereno e forte
volto, bench'egra giaccia or da piú giorni,
me turbato raccoglie. Anzi ch'io parli,
dice ella a me: « Bruto, gran cose in petto
da lungo tempo ascondi; ardir non ebbi
di domandarten mai, fin che a feroce
prova, ma certa, il mio coraggio appieno
non ebbi io stessa conosciuto. Or, mira;
donna non sono ». E in cosí dir, cadersi
lascia del manto il lembo, e a me discuopre
larga orribile piaga a sommo il fianco.
Quindi soggiunge: « Questa immensa piaga,
con questo stil, da questa mano, è fatta,
or son piú giorni: a te taciuta sempre,
e imperturbabilmente sopportata
dal mio cor, benché infermo il corpo giaccia;
degna al fin, s'io non erro, questa piaga
fammi e d'udire, e di tacer, gli arcani
di Bruto mio ».

CIMBRO - Qual donna!

CASSIO - A lei qual puossi
uom pareggiare?

BRUTO - A lei davante io quindi,
quasi a mio tutelar Genio sublime,
prostrato caddi, a una tal vista; e muto,
piangente, immoto, attonito, mi stava. -
Ripresa poscia la favella, io tutte
l'aspre tempeste del mio cor le narro.
Piange al mio pianger ella; ma il suo pianto
non è di donna, è di Romano. Il solo
fato avverso ella incolpa: e in darmi forse
lo abbraccio estremo, osa membrarmi ancora,
ch'io di Roma son figlio, a Porzia sposo,
e ch'io Bruto mi appello. - Ah! né un istante
mai non diedi all'oblio tai nomi, mai:
e a giurarvelo, vengo. - Altro non volli,
che del mio stato orribile accennarvi
la minor parte; e d'amistá fu sfogo
quant'io finora dissi. - Or, so; voi primi
convincer deggio, che da Roma tormi,
né il può natura stessa... Ma, il dolore,
il disperato dolor mio torrammi
poscia, pur troppo! e per sempre, a me stesso.

CIMBRO - Romani siamo, è ver; ma siamo a un tempo
uomini; il non sentirne affetto alcuno,
ferocia in noi stupida fora... Oh Bruto!...
Il tuo parlar strappa a me pure il pianto.

CASSIO - Sentir dobbiam tutti gli umani affetti;
ma, innanzi a quello della patria oppressa,
straziata, e morente, taccion tutti:
o, se pur parlan, l'ascoltargli a ogni uomo,
fuor che a Bruto, si dona.

BRUTO - In reputarmi
piú forte e grande ch'io nol son, me grande
e forte fai, piú ch'io per me nol fora. -
Cassio,ecco omai rasciutto ho il ciglio appieno. -
Giá si appressan le tenebre: il gran giorno
doman sará. Tutto di nuovo io giuro,
quanto è fra noi giá risoluto. Io poso
del tutto in voi; posate in me: null'altro
chieggo da voi, fuor che aspettiate il cenno
da me soltanto.

CASSIO - Ah! dei Romani il primo
davver sei tu. - Ma, chi mai vien?...

CIMBRO - Che veggio?
Antonio!

BRUTO - A me Cesare or certo il manda.
State; e ci udite.


SCENA TERZA

Antonio, Cassio, Bruto, Cimbro.


ANTONIO - In traccia, o Bruto, io vengo
di te: parlar teco degg'io.

BRUTO - Favella:
io t'ascolto.

ANTONIO - Ma, dato emmi l'incarco
dal dittatore...

BRUTO - E sia ciò pure.

ANTONIO - Io debbo
favellare a te solo.

BRUTO - Io qui son solo.
Cassio, di Giunia a me germana è sposo;
del gran Caton mio suocero, l'amico
era Cimbro, e il piú fido: amor di Roma,
sangue, amistá, fan che in tre corpi un'alma
sola siam noi. Nulla può dire a Bruto
Cesare mai, che nol ridica ei tosto
a Cassio, e a Cimbro.

ANTONIO - Hai tu comun con essi
anco il padre?

BRUTO - Diviso han meco anch'essi
l'onta e il dolor del tristo nascer mio:
tutto ei sanno. Favella. - Io son ben certo,
che in sé tornato Cesare, ei t'invia,
generoso, per tormi or la vergogna
d'esser io stato d'un tiranno il figlio.
Tutto esponi, su dunque: aver non puoi
del cangiarsi di Cesare sublime,
da re ch'egli era in cittadin, piú accetti
testimon mai, di questi. - Or via, ci svela
il suo novello amore alto per Roma;
le sue per me vere paterne mire;
ch'io benedica il dí, che di lui nacqui.

ANTONIO - - Di parlare a te solo m'imponeva
il dittatore. Ei, vero padre, e cieco
quanto infelice, lusingarsi ancora
pur vuol, che arrender ti potresti al grido
possente e sacro di natura.

BRUTO - E in quale
guisa arrendermi debbo? a che piegarmi?...

ANTONIO - A rispettare e amar chi a te diè vita:
ovver, se amar tuo ferreo cuor non puote,
a non tradire il tuo dover piú sacro;
a non mostrarti immemore ed indegno
dei ricevuti benefizj; in somma,
a mertar quei, ch'egli a te nuovi appresta. -
Troppo esser temi uman, se a ciò ti pieghi?

BRUTO - Queste, ch'or vuote ad arte a me tu dai,
parole son; stringi, e rispondi. È presto
Cesare, al dí novello, in pien senato,
a rinunziar la dittatura? è presto
senza esercito a starsi? a scior dal rio
comun terror tutti i Romani? a sciorne
e gli amici, e i nemici, e in un se stesso?
a render vita alle da lui sprezzate
battute e spente leggi sacrosante?
a sottoporsi ad esse sole ei primo? -
Questi son, questi, i benefizj espressi,
cui far può a Bruto il genitor suo vero.

ANTONIO - Sta bene. - Altro hai che dirmi?

BRUTO - Altro non dico
a chi udirmi non merta. - Al signor tuo
riedi tu dunque, e digli; che ancor spero,
anzi, ch'io credo, e certo son, che al nuovo
sole in senato utili cose ed alte,
per la salvezza e libertá di Roma,
ei proporrá: digli, che Bruto allora,
di Roma tutta in faccia, a' piedi suoi
cadrá primier, qual cittadino e figlio;
dove pur padre e cittadino ei sia.
E digli in fin, ch'ardo in mio core al paro
di far riviver per noi tutti Roma,
come di far rivivere per essa
Cesare...

ANTONIO - Intendo. - A lui dirò quant'io,
(pur troppo invan!) gran tempo è giá, gli dissi.

BRUTO - Maligno messo, ed infedel, ti estimo,
infra Cesare e Bruto: ma, s'ei pure
a ciò te scelse, a te risposta io diedi.

ANTONIO - Se a me credesse, e all'utile di Roma.
Cesare omai, messo ei non altro a Bruto
dovria mandar, che coi littor le scuri.


SCENA QUARTA

Bruto, Cassio, Cimbro.


CIMBRO - Udiste?...

CASSIO - Oh Bruto!... il Dio tu sei di Roma.

CIMBRO - Questo arrogante iniquo schiavo, anch'egli
punir si debbe...

BRUTO - Ei di nostr'ira, parmi,
degno non fora. - Amici, ultima prova
domane io fo: se vana ell'è, promisi
io di dar cenno, e di aspettarlo voi:
v'affiderete in me?

CASSIO - Tu a noi sei tutto. -
Usciam di qui: tempo è d'andarne ai pochi
che noi scegliemmo; e che a morir per Roma
doman con noi si apprestano.

BRUTO - Si vada.


ATTO QUINTO

La scena è nella curia di Pompeo

SCENA PRIMA

Bruto, Cassio, Senatori, che si vanno collocando
ai lor luoghi


CASSIO - Scarsa esser vuol questa adunanza, parmi;
minor dell'altra assai...

BRUTO - Pur che minore
non sia il cor di chi resta; a noi ciò basta.

CASSIO - Odi tu, Bruto, la inquieta plebe,
come giá di sue grida assorda l'aure?

BRUTO - Varian sue grida ad ogni nuovo evento:
lasciala; anch'essa in questo dí giovarne
forse potrá.

CASSIO - Mai non ti vidi io tanto
securo, e in calma.

BRUTO - Arde il periglio.

CASSIO - Oh Bruto!...
Bruto, a te solo io cedo.

BRUTO - Il gran Pompeo,
che marmoreo qui spira, e ai pochi nostri
par ch'or presieda, omai securo fammi,
quanto il vicin periglio.

CASSIO - Ecco, appressarsi
del tiranno i littori.

BRUTO - E Casca, e Cimbro?...

CASSIO - Feri scelto hanno il primo loco, a forza:
sieguon dappresso Cesare.

BRUTO - Pensasti
ad impedir che l'empio Antonio?...

CASSIO - A bada
fuor del senato il tratterranno a lungo
Fulvio e Macrin; s'anco impedirlo è d'uopo,
con la forza il faranno.

BRUTO - Or, ben sta il tutto.
Pigliam ciascuno il loco nostro. - Addio,
Cassio. Noi qui ci disgiungiam pur schiavi;
liberi, spero, abbraccieremci in breve,
ovver morenti. - Udrai da pria gli estremi
sforzi di un figlio; ma vedrai tu poscia
di un cittadin gli ultimi sforzi.

CASSIO - Oh Bruto!
Ogni acciar pende dal solo tuo cenno.


SCENA SECONDA

Senatori seduti. Bruto e Cassio ai lor luoghi. Cesare, preceduto dai Littori, che poscia lo lasciano; Casca, Cimbro, e molti altri, lo seguono. Tutti sorgono all'entrar di Cesare, finch'egli seduto non sia.


CESARE - Oh! che mai fu? mezzo il senato appena,
benché sia l'assegnata ora trascorsa?...
Ma, tardo io stesso oltre il dover, vi giungo. -
Padri Coscritti, assai mi duol di avervi
indugiati... Ma pur, qual fia cagione,
che di voi sí gran parte ora mi toglie?


Silenzio universale.


BRUTO - Null'uom risponde? - A tutti noi pur nota
è la cagion richiesta. - Or, non te l'apre,
Cesare, appieno il tacer di noi tutti? -
Ma, udirla vuoi? - Quei che adunar qui vedi,
il terror gli adunò; quei che non vedi,
gli ha dispersi il terrore.

CESARE - A me novelli
non son di Bruto i temerari accenti;
come a te non è nuova la clemenza
generosa di Cesare. - Ma invano;
che ad altercar qui non venn'io...

BRUTO - Né invano
ad offenderti noi. - Mal si avvisaro,
certo, quei padri, che in sí lieto giorno
dal senato spariro: e mal fan quelli,
che in senato or stan muti. - Io, conscio appieno
degli alti sensi che a spiegar si appresta
Cesare a noi, mal rattener di gioja
gl'impeti posso; e disgombrar mi giova
il falso altrui terrore. - Ah! no, non nutre
contro alla patria omai niun reo disegno
Cesare in petto; ah! no: la generosa
clemenza sua, che a Bruto oggi ei rinfaccia,
e che adoprar mai piú non dee per Bruto,
tutta or giá l'ha rivolta egli all'afflitta
Roma tremante. Oggi, vel giuro, un nuovo
maggior trionfo a' suoi trionfi tanti
Cesare aggiunge; ei vincitor ne viene
qui di se stesso, e della invidia altrui.
Vel giuro io, sí, nobili padri; a questo
suo trionfo sublime oggi vi aduna
Cesare: ei vuole ai cittadini suoi
rifarsi pari; e il vuol spontaneo: e quindi,
infra gli uomini tutti al mondo stati,
mai non ebbe, né avrá. Cesare il pari.

CESARE - Troncar potrei. Bruto, il tuo dir...

BRUTO - Né paia
temeraria arroganza a voi la mia;
pretore appena, osare io pure i detti
preoccupar del dittatore. È Bruto
col gran Cesare omai sola una cosa. -
Veggio inarcar dallo stupor le ciglia:
oscuro ai padri è il mio parlar; ma tosto,
d'un motto sol, chiaro il farò. - Son figlio
io di Cesare...


Grida universale di stupore.


BRUTO - Sí; di lui son nato;
e assai men pregio; poiché Cesare oggi,
di dittator perpetuo ch'egli era,
perpetuo e primo cittadin si è fatto.


Grida universale di gioja.


CESARE - ... Bruto è mio figlio, è ver; l'arcano or dianzi
glie ne svelava io stesso. A me gran forza
fean l'eloquenza, l'impeto, l'ardire,
e un non so che di sovruman, che spira
il suo parlar: nobil, bollente spirto,
vero mio figlio, è Bruto. Io quindi, a farvi,
Romani, il ben che in mio poter per ora
non sta di farvi, assai di me piú degno
lui, dopo me, trascelgo: a lui la intera
mia possanza lasciar, disegno; in esso
fondata io l'ho: Cesare avrete in lui...

BRUTO - Securo io stommi: ah! di ciò mai capace,
non che gli amici, né i nemici stessi
piú acerbi e implacabili di Bruto,
nol credon, no. - Cesare a me sua possa
cede, o Romani: e in ciò vuol dir, che ai preghi
di me suo figlio, il suo poter non giusto
Cesare annulla, e in libertá per sempre
Roma ei ripone.


Grida universale di gioja.


CESARE - Or basti. Al mio cospetto
tu, come figlio, e come a me minore,
tacerti dei. - Cesare, o Padri, or parla. -
Ir contra i Parti, irrevocabilmente
ho fermo in mio pensiero. All'alba prima,
colle mie fide legioni, io muovo
ver l'Asia: inulta ivi di Crasso l'ombra,
da gran tempo mi appella, e a forza tragge.
Lascio Antonio alla Italia; abbialo Roma
quasi un altro me stesso: alle assegnate
provincie lor tornino e Cassio, e Cimbro,
e Casca: al fianco mio Bruto starassi.
Spenti i nemici avrò di Roma appena,
a darmi in man de' miei nemici io riedo:
e, o dittatore, o cittadino, o nulla,
qual piú vorrá. Roma a sua posta avrammi.


Silenzio universale.


BRUTO - - Non di Romano al certo, né di padre,
né di Cesare pur, queste che udimmo,
eran parole. I rei comandi questi
fur di assoluto re. - Deh! padre, ancora
m'odi una volta; i pianti ascolta, e i preghi
di un cittadin, di un figlio. Odimi; tutta
meco ti parla, or per mia bocca, Roma.
Mira quel Bruto, cui null'uom mai vide
finor né pianger, né pregar; tu il mira
a' piedi tuoi. Di Bruto esser vuoi padre,
e non l'esser di Roma?

CESARE - Omai preghiere,
che son pubblico oltraggio, udir non voglio.
Sorgi, e taci. - Appellarmi osa tiranno
costui; ma, nol son io: se il fossi, a farmi
sí atroce ingiuria in faccia a Roma, io stesso
riserbato lo avrei? - Quanto in sua mente
il dittator fermava, esser de' tutto.
L'util cosí di Roma impera; e ogni uomo,
che di obbedirmi omai dubita, o niega,
è di Roma nemico; e lei rubello,
traditor empio egli è.

BRUTO - - Come si debbe
da cittadini veri, omai noi tutti
obbediam dunque al dittatore. Bruto snuda, e brandisce in alto il pugnale; i congiurati si avventano a Cesare coi ferri.

CIMBRO - Muori,
tiranno, muori.

CASSIO - E ch'io pur anco il fera.

CESARE - Traditori...

BRUTO - E ch'io sol ferir nol possa?...

ALCUNI SENATORI - Muoia, muoia, il tiranno.

ALTRI SENATORI - fuggendosi
Oh vista! Oh giorno!

CESARE - Carco di ferite, strascinandosi fino alla statua di Pompeo, dove, copertosi il volto col manto, egli spira. Figlio,... e tu pure?... Io moro...

BRUTO - Oh padre!... Oh Roma!...

CIMBRO - Ma, dei fuggenti al grido, accorre in folla
il popol giá...

CASSIO - Lascia, che il popol venga:
spento è il tiranno. A trucidar si corra
Antonio anch'ei.


SCENA TERZA

Popolo, Bruto, Cesare, morto.


POPOLO - Che fu? quai grida udimmo?
qual sangue è questo? Oh! col pugnale in alto
Bruto immobile sta?

BRUTO - Popol di Marte,
(se ancora il sei) lá, lá rivolgi or gli occhi:
mira chi appiè del gran Pompeo sen giace...

POPOLO - Cesare? oh vista! Ei nel suo sangue immerso?...
Oh rabbia!...

BRUTO - Sí; nel proprio sangue immerso
Cesare giace: ed io, benché non tinto
di sangue in man voi mi vediate il ferro,
io pur cogli altri, io pur, Cesare uccisi...

POPOLO - Ah traditor! tu pur morrai...

BRUTO - Giá volta
sta dell'acciaro al petto mio la punta:
morire io vo': ma, mi ascoltate pria.

POPOLO - Si uccida pria chi Cesare trafisse...

BRUTO - Altro uccisore invan cercate: or tutti
dispersi giá fra l'ondeggiante folla,
i feritor spariro: invan cercate
altro uccisor, che Bruto. Ove feroci
a vendicare il dittator qui tratti
v'abbia il furore, alla vendetta vostra
basti il capo di Bruto. - Ma, se in mente,
se in cor pur anco a voi risuona il nome
di vera e sacra libertade, il petto
a piena gioja aprite: è spento al fine,
è spento lá, di Roma il re.

POPOLO - Che parli?

BRUTO - Di Roma il re, sí, vel confermo, e il giuro:
era ei ben re: tal qui parlava; e tale
mostrossi ei giá ne' Lupercali a voi,
quel dí che aver la ria corona a schivo
fingendo, al crin pur cinger la si fea
ben tre volte da Antonio. A voi non piacque
la tresca infame; e a certa prova ei chiaro
vide, che re mai non saria, che a forza.
Quindi a guerra novella, or, mentre esausta
d'uomini, e d'armi, e di tesoro è Roma,
irne in campo ei volea; certo egli quindi
di re tornarne a mano armata, e farvi
caro costare il mal negato serto.
L'oro, i banchetti, le lusinghe, i giuochi,
per far voi servi, ei profondea: ma indarno
l'empio il tentò; Romani voi, la vostra
libertá non vendete: e ancor per essa
presti a morir tutti vi veggio: e il sono
io, quanto voi. Libera è Roma; in punto
Bruto morrebbe. Or via, svenate dunque
chi libertá, virtú vi rende, e vita;
per vendicare il vostro re, svenate
Bruto voi dunque: eccovi ignudo il petto...
Chi non vuol esser libero, me uccida. -
Ma, chi uccidermi niega, omai seguirmi
debbe, ed a forza terminar la impresa.

POPOLO - Qual dir fia questo? - Un Dio lo inspira...

BRUTO - Ah! veggo
a poco a poco ritornar Romani
i giá servi di Cesare. Or, se Bruto
roman sia anch'egli, udite. - Havvi tra voi
chi pur pensato abbia finora mai
ciò, ch'ora io sto con giuramento espresso
per disvelare a voi? - Vero mio padre
Cesare m'era...

POPOLO - Oh ciel! che mai ci narri?...

BRUTO - Figlio a Cesare nasco; io 'l giuro; ei stesso
ier l'arcano svelavami; ed in pegno
di amor paterno, ei mi volea, (vel giuro)
voleva un dí, quasi tranquillo e pieno
proprio retaggio suo, Roma lasciarmi.

POPOLO - Oh ria baldanza!...

BRUTO - E le sue mire inique
tutte a me quindi ei discoprire ardiva...

POPOLO - Dunque (ah pur troppo!) ei disegnava al fine
vero tiranno appalesarsi...

BRUTO - Io piansi,
pregai, qual figlio; e in un, qual cittadino,
lo scongiurai di abbandonar l'infame
non romano disegno: ah! che non feci,
per cangiarlo da re?... Chiesta per anco
gli ho in don la morte; che da lui piú cara
che il non suo regno m'era: indarno il tutto:
nel tirannico petto ei fermo avea,
o il regnare, o il morire. Il cenno allora
di trucidarlo io dava; io stesso il dava
a pochi e forti: ma in alto frattanto
sospeso stava il tremante mio braccio...

POPOLO - Oh virtú prisca! oh vero Bruto!

BRUTO - È spento
di Roma il re; grazie agli Iddii sen renda...
Ma ucciso ha Bruto il proprio padre;... ei merta
da voi la morte... E viver volli io forse?...
Per brevi istanti, io il deggio ancor; finch'io
con voi mi adopro a far secura appieno
la rinascente comun patria nostra:
di cittadin liberatore, il forte
alto dover, compier, si aspetta a Bruto;
ei vive a ciò: ma lo immolar se stesso,
di propria man su la paterna tomba,
si aspetta all'empio parricida figlio
del gran Cesare poscia.

POPOLO - Oh fero evento!...
Stupor, terror, pietade;... oh! quanti a un tempo
moti proviamo?... Oh vista! in pianto anch'egli,
tra il suo furor, Bruto si stempra?...

BRUTO - - Io piango.
Romani, sí; Cesare estinto io piango.
Sublimi doti, uniche al mondo; un'alma,
cui non fu mai l'egual, Cesare avea:
cor vile ha in petto chi nol piange estinto. -
Ma, chi ardisce bramarlo omai pur vivo,
Roman non è.

POPOLO - Fiamma è il tuo dire, o Bruto...

BRUTO - Fiamma sian l'opre vostre; alta è l'impresa;
degna è di noi: seguitemi; si renda
piena ed eterna or libertade a Roma.

POPOLO - Per Roma, ah! sí, su l'orme tue siam presti
a tutto, sí...

BRUTO - Via dunque, andiam noi ratti
al Campidoglio; andiamo; il seggio è quello
di libertade, sacro: in man lasciarlo
dei traditor vorreste?

POPOLO - Andiam: si tolga
la sacra rocca ai traditori.

BRUTO - A morte,
a morte andiam, o a libertade.

Si muove Bruto, brandendo ferocemente la spada; il popolo tutto a furore lo segue

POPOLO - A morte,
con Bruto a morte, o a libertá si vada.








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